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Berlino. Prima e dopo il Muro

Luca Beatrice*

Manca poco più di un decennio all’arrivo del 2000, eppure quel 1989 è destinato non solo a passare alla storia quanto davvero a cambiarla. In marzo l’informatico inglese Tim Berners-Lee presenta al Cern di Ginevra un progetto globale sull’ipertesto che, in nuce, anticipa il world wibe web. A giugno si conclude con un massacro (le cifre ufficiali non si sapranno mai) la protesta degli studenti cinesi a piazza Tienanmen. Nel giorno di Natale il presidente rumeno Nicolai Ceausescu e la moglie Elena vengono giustiziati in diretta tv, il culmine più sanguinoso dell’autunno delle Nazioni che coinvolge le Repubbliche sotto l’influenza sovietica. “Come un domino-ancora Greppi- il crollo travolge in poche settimane ogni paese, DDR compresa: nell’Europa dell’Est non si sceglie la strada della repressione come in piazza Tienanmen, dove viene stroncata nel sangue la manifestazione degli studenti cinesi che sfilavano cantando Get Up, Stand Up (è una canzone di Bob Marley, ndr). Nell’Europa dell’Est si aprono la strada della democrazia e quella del libero mercato: il modello capitalista ha vinto su quello comunista, anche a causa del messaggio oscuro che il Muro emanava da ventotto anni”.

Berlino, la città che attende l’appuntamento con la storia, da almeno dieci anni prima del 1989 si propone come uno dei luoghi più creativi e stimolanti d’Europa. Città giovane per eccellenza che nell’oggettiva, fisica, divisione tra due mondi incompatibili eppure divisi da una superficie di cemento inscena fermenti straordinari soprattutto per quelle generazioni che il cambiamento lo stanno vivendo sulla pelle.  Alcune descrizioni non sono riuscite a evitare un certo schematismo –il Paese dei balocchi versus il grigiore della socialdemocrazia- a cominciare dalla vicenda narrata nel film Christiane F. Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino, prostituzione minorile e tossicodipendenza nella Berlino ovest negli anni Settanta. Va a finire che è colpa di troppa libertà. Comunque la protagonista del film è una fan di David Bowie che, infatti, ha scelto Berlino per registrare la fondamentale trilogia Heroes, Low e Lodger. Reduce anch’egli da una pessima stagione californiana, il cantante in Germania ha ritrovato la pace, la tranquillità e può andare a fare la spesa senza essere riconosciuto. Bowie condivide un appartamento a Schoenenberg con Iggy Pop e anche per l’Iguana quelli berlinesi sono anni finalmente produttivi: The Passenger, la canzone capolavoro, è stata scritta sulla SBahn.

Punto di ritrovo della fauna punk e alternativa da una parte, città decadente che si porta dietro il peso della storia e non riesce a superare i propri fantasmi, questa è Berlino negli anni prima e dopo il Muro. Anni fervidi, in cui il cinema ha prodotto una scuola europea che segue, per autorialità, il Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague francese. Il Nuovo Cinema Tedesco, che comincia la sua avventura già nel 1962 con il Manifesto di Oberhausen, raduna almeno due generazioni di cineasti: Alexander Kluge, Margarethe von Trotta, Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog e soprattutto Wim Wenders sono i più noti, quest’ultimo autentico cantore della Berlino prima e dopo.

E’ il 1991 quando apre al Martin Gropius Bau la mostra Metropolis, prima grande rassegna d’arte contemporanea nella Berlino senza Muro, il cui titolo si ispira al film capolavoro muto di Fritz Lang. Lang che da Berlino dovette andarsene per sfuggire ai nazisti è tornato a casa e ora ci vuole venire a vivere chiunque sfugga dalle dittature. Ci sono artisti da tutto il mondo e in breve Berlino comincerà ad attrarre persone da ogni dove, anticipando di fatto la globalizzazione. L’arte, accade spesso, arriva molto prima della realtà, e infatti proprio nel 1989 al Centre Pompidou di Parigi Les Magiciens de la terre fu la prima mostra che ci aprì lo sguardo verso nuovi mondi possibili. E Berlino questo panorama fluido di persone lo mise in pratica pressoché subito. 

Metropolis perché il teatro del cambiamento, più che mai, sarebbe stato la città. I curatori della mostra, Christos Joachimides e Norman Rosenthal, sono gli stessi che poco meno di dieci anni prima, nel 1982, avevano aperto, sempre al Gropius, Zeitgeist, termine che in tedesco definisce lo “spirito dei tempi”. E all’inizio degli anni Ottanta lo spirito dell’arte guardava soprattutto in direzione della pittura, per il riemergere del Neoespressionismo in Germania, del citazionismo colto della Transavanguardia in Italia e della sintesi in chiave international style in America. Tante possono essere le ragioni del ritorno alla pittura, peraltro un fenomeno periodico, a cominciare dal boom del mercato dell’arte negli anni Ottanta, quando l’economia si trasforma in finanza, cui però bisogna aggiungere la fase di stanca del concettuale nonostante la fondamentale influenza di Joseph Beuys che molti pittori li ha avuti come allievi, che ha perso per strada parte del suo tono provocatorio, e l’avanzare del postmoderno, teoria che finalmente non entra in conflitto con la storia ma anzi ne rilegge i passaggi salienti in chiave supercontemporanea. 

A Zeitgeist partecipano, tra gli altri, Georg Baselitz, Anselm Kiefer, Markus Lupertz, A.R. Penck e Sigmar Polke. Il 1982 è anche l’anno di documenta 7 curata da Rudi Fuchs che di lì a poco diventerà il primo direttore del Castello di Rivoli. Sorprendente lo spazio, ma non avrebbe potuto essere altrimenti, concesso alla pittura; tanti sono i quadri tra le circa mille opere esposte, tra gli autori ancora Baselitz, Kiefer, Lupertz, Polke, Penck cui vanno aggiunti Immendorf e Richter, per limitarci ai tedeschi. Per diversi di loro funziona la definizione di “Nuovi Selvaggi”, coniata da Wolfgang Becker, direttore del museo di Aix-la-Chapelle, in contrapposizione con la sintesi e la leggerezza della pittura americana e in generale da quella di derivazione matissiana. Non sono un gruppo ristretto e compatto come la Transavanguardia, pesanti e duri senza rifiutare l’ironia, per una pittura gestuale, aspra, primitiva, che ha tra i suoi riferimenti l’Espressionismo e Picasso, i Fauves e la Nuova Oggettività, ma anche Pop Art, fumetto, illustrazione, immagini trovate e tanta salsa punk, in cui si enfatizza la notte –“crucca e assassina” direbbe Francesco De Gregori- una vita al limite, senza regole e un fondo di compiaciuta decadenza che fa tanto Lili Marlene.

L’arte tedesca in attesa della caduta del Muro è dunque prevalentemente pittorica. Lo conferma Refigured Painting. The German Image 1960-1988, la retrospettiva itinerante negli Stati Uniti e in Germania curata da Thomas Krens, Michael Govan e Joseph Thompson, che mette insieme un numero davvero molto elevato di pittori. Solo all’ultima tappa del tour, la Kunsthalle di Francoforte, dopo essere stata peraltro ospite del Guggenheim New York, il Muro non c’è più. C’è quindi da chiedersi: questa mostra chiude un’epoca o ne apre un’altra?

Probabilmente entrambe le cose. Da una parte quella pittura è fortemente legata agli anni che hanno preceduto la caduta, dall’altra però sorprende la tenuta di questi artisti nei decenni successivi: alcuni come Kiefer, Richter, Polke, Baselitz, Albert Oehlen sono vere e proprie superstar della critica e del mercato e ancora oggi risultano tra i più influenti. Gli altri protagonisti della pittura tedesca tra Nuovi Selvaggi e dintorni, buona parte qui ospitati con opere di datazione “storica”, non sono stati soltanto testimoni della storia in diretta ma questa rivoluzione hanno continuato a raccontarla alle generazioni successive che non possono fare a meno di leggerne lo straordinario impatto sulla cultura e sulla società proprio quando l’Europa stava cambiando definitivamente volto. 



* Storico dell’arte

Curatore della mostra Berlin 1989. La pittura in Germania prima e dopo il Muro

Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano

Napoli, 12 ottobre 2019 – 19 gennaio 2020

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