Imprese Vincenti 2021: Persone e Capitale Umano
Intesa Sanpaolo ha lanciato la terza edizione di “Imprese Vincenti”, il programma grazie al quale le PMI italiane vengono inserite in percorsi di valorizzazione, visibilità e supporto allo sviluppo, advisory su competenze strategiche, formazione e workshop.
Le imprese sono definite “vincenti” perché - nonostante la crisi dovuta alla Pandemia da COVID-19 - sono state capaci di crescere, mantenere posti di lavoro, attuare trasformazioni digitali, organizzative e di business e attivare soluzioni ad elevata sostenibilità sul piano economico-sociale e ambientale.
L’edizione 2021 del Digital Tour di Imprese Vincenti è composta da tappe tematiche che rappresentano i capisaldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR):
- Innovazione, ricerca e sviluppo
- Internazionalizzazione
- Digitalizzazione
- Agroalimentare
- Filiere e territorio
- Sostenibilità - ESG
- Persone e capitale umano
- Impact
La settima tappa del Digital Tour di “Imprese Vincenti” è dedicata a Persone e Capitale Umano.
Clicca qui per vedere il video di apertura del digital tour di Imprese Vincenti 2021.
Nella settima tappa del digital tour dedicata a Persone e Capitale Umano vengono presentate 14 PMI vincenti: Astelav (Torino), Aton (Treviso), Beantech (Udine), Bending Spoons (Milano), Bonomi Industries (Brescia), Fapim (Lucca), Irion (Torino), Metaltecnica (Novara), Minifaber (Bergamo), Sogedim (Milano), Steel Tech (Bari), Telebit (Pordenone), Walter Tosto (Chieti), Zeta Service (Milano).
A Imprese e Capitale Umano è dedicata un’analisi della Direzione Studi e Ricerche Intesa Sanpaolo.
L'analisi della Direzione Studi e Ricerche Intesa Sanpaolo su Imprese e Capitale Umano
La competitività dell’industria italiana è strettamente legata al saper fare e al know-how del capitale umano. Per questo il tema del passaggio generazionale ha un’importanza strategica per la conservazione e il futuro del patrimonio industriale italiano.
In Italia l’8% dei lavoratori ha più di 60 anni e il 12% delle imprese ha un consiglio di amministrazione composto da persone con almeno 65 anni, con punte del 15% nel Mezzogiorno. Una sfida così complessa, se non affrontata con efficacia e nei tempi dovuti, può mettere a rischio intere filiere produttive composte da innumerevoli PMI famigliari e compromettere la vocazione industriale del nostro Paese.
Tale obiettivo diventa ancor più importante alla luce delle discontinuità legate alla trasformazione digitale e alla transizione ambientale, che richiedono flessibilità e multidisciplinarietà proprie delle nuove generazioni.
Nel 2020 la pandemia ha attivato un’accelerazione del processo di digitalizzazione già in atto nel mondo delle imprese, con effetto di un esteso utilizzo dello smart working, dell’amplificazione del commercio online e in generale della digitalizzazione e della connessione delle diverse funzioni aziendali e dei servizi ai clienti e ai fornitori in ottica 4.0. Le competenze digitali come l’uso di internet e della comunicazione visuale e multimediale sono diventate competenze base che tutti i lavoratori devono possedere: secondo le stime dell’indagine Excelsior di Unioncamere [1], nel prossimo quinquennio più della metà dei profili ricercati dovrà avere almeno competenze digitali di livello intermedio e circa un quarto apparterrà a figure “e-skill mix” con competenze più evolute rispetto a quelle base, cioè con capacità di utilizzare linguaggi informatici e metodi matematici e/o gestire soluzioni innovative.
La trasformazione digitale in atto implica importanti cambiamenti sia nelle attività industriali che nei servizi indotti dall’introduzione di nuove tecnologie 4.0 (Intelligenza Artificiale, Internet delle cose, robotica avanzata, stampa 3D, Blockchain per citarne alcune), di nuovi materiali (bio e/o nano materiali, ecc.) e di nuovi processi. L’effetto finale che ne deriverà, tra ambiti lavorativi che potrebbero scomparire e nuovi lavori che potrebbero nascere, dipenderà dalla capacità e dalla velocità con cui il mercato del lavoro riuscirà a sviluppare le e-skills per riadattarsi alla nuova configurazione technology-driven della struttura occupazionale. La domanda di competenze digitali interesserà sia figure professionali già esistenti quanto nuove professioni emergenti, come data scientist, big data analyst, cloud computing expert, cyber security expert, business intelligence analyst e artificial intelligence system engineer, con un complessivo innalzamento della ricerca di figure tecniche e specialistiche con livelli formativi elevati di diploma e laurea.
Secondo quanto emerge da recenti indagini, vi è da parte delle aziende la consapevolezza che la professionalità dei lavoratori sia un fattore rilevante di competitività che viene citato come secondo per importanza solo alla qualità dei prodotti e dei servizi offerti. Ciononostante, rimane ancora alto il divario tra i profili ricercati dalle imprese e quelli offerti dai giovani in cerca di occupazione e si rileva da parte delle imprese una scarsa attitudine a investire in formazione interna, accompagnata dalla preoccupazione di riuscire a trattenere le risorse migliori.
Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro
Sono notevoli le difficoltà da parte delle imprese nel reperire sul mercato del lavoro tecnici e operai specializzati e in generale personale con le competenze necessarie per utilizzare al meglio le nuove tecnologie digitali e supportare il processo di innovazione e di crescita dell’economia sostenibile. Gli ultimi dati disponibili da Excelsior-Anpal [2] segnalano come delle 505mila entrate previste a ottobre 2021, il 36% sia di difficile reperimento, con punte del 51,5% per gli operai specializzati, il 41,8% per le professioni tecniche, il 40,6% per i dirigenti, le professioni intellettuali, scientifiche e con elevata specializzazione. Se ci si focalizza sui giovani, le difficoltà sono addirittura maggiori: delle 145mila entrate attese a ottobre (il 29% del totale), il 38% sono di difficile reperimento, con difficoltà soprattutto nel trovare specialisti in scienze informatiche, fisiche e chimiche (75%), operai specializzati nelle industrie del legno e della carta (54%), operai nelle attività metalmeccaniche ed elettromeccaniche (54%), tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione (53%), operai specializzati nell’edilizia (51%), operai specializzati nel sistema moda (48%).
Si assiste dall’altra parte all’aumento dei disoccupati: tra il 2008 e il 2019 è cresciuto il numero di disoccupati in età giovanile tra 15 e 34 anni (+233 mila) (Fonte Istat [3]). A preoccupare è anche l’aumento dei disoccupati con titoli elevati di istruzione: nel 2019 l’incidenza dei diplomati in fascia di età 15-34 anni sul totale dei disoccupati della stessa età era del 51,2% (+3,9% rispetto al 2008), mentre l’incidenza dei laureati tra 15 e 34 anni sui disoccupati era del 15,9% (+1,3% in più rispetto al 2008), a conferma di un mancato incontro tra le aspettative dei giovani e le proposte di lavoro delle aziende.
Le motivazioni del disallineamento tra domanda e offerta del mercato del lavoro italiano sono molteplici; tra queste la più evidente è che i percorsi di laurea scelti dai giovani non risultano in linea con i profili cercati dalle imprese. Prendendo in esame i laureati per area di studio nell’anno 2017/2018 [4] si nota che prevalgono i laureati in indirizzi economico, giuridico e sociale (35,7%), seguiti dai laureati in STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica con il 27,2%) e da quelli in area Artistica, Letteraria ed Educazione, e Sanitaria e Agro-Veterinaria. Nonostante la maggiore probabilità di entrare nel mercato del lavoro delle lauree a più elevato contenuto tecnologico e scientifico, tra il 2005 e il 2018 si sono raddoppiati i laureati in area STEM (+108%), ma i laureati in materie artistiche, letterarie e dell’educazione sono aumentati in misura ancora maggiore (+117,8%).
Se si confronta invece quanto dichiarato dalle imprese nello stesso anno (2018) sulle entrate di laureati previste [5] si nota come le lauree STEM siano quelle più ricercate (38,2%), con un peso leggermente superiore a quelle economiche, giuridiche e sociali (+37,3%) e come soprattutto i laureati STEM sono risultati di difficile reperimento per poco meno della metà delle posizioni ricercate (45,8%). La tendenza è confermata anche nei livelli di formazione secondaria e post secondaria (Indagine Excelsior 2018) dove gli indirizzi di formazione assimilabili all’Area tecnologica (Meccanica, meccatronica ed energia, Elettronica ed elettrotecnica e Informatica e telecomunicazioni) ricercati dalle imprese coprono da soli più di un terzo delle entrate previste (34,5%) e confermano il processo di digitalizzazione in corso nell’industria e nei servizi. Il problema anche per la formazione di tipo secondario è che le imprese faticano a trovare profili nell’ambito tecnologico (il 42,5% risulta di difficile reperimento), dichiarando la mancanza di candidati come causa maggiore per gli indirizzi di Meccanica, meccatronica ed energia, Elettronica ed elettrotecnica e di un livello di preparazione considerato non adeguato alle esigenze dell’azienda nel caso di Informatica e telecomunicazioni.
A peggiorare la mancanza di candidati con percorsi formativi adeguati, si aggiunge il problema della dispersione scolastica che avviene immediatamente dopo la scuola dell’obbligo, dove la quota di giovani stimata in Italia tra i 18 e i 24 anni che possiede al più un titolo secondario inferiore ed è fuori dal sistema di istruzione e formazione (abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale) è del 13,1%, (pari a 543 mila giovani) tra le più alte dell’Ue (in media, nell’Ue27 la quota Early Leavers from Education and Training, ELET è del 9,9%) [6], con punte del 16,3% nel Mezzogiorno. In particolare, Sicilia, Campania, Calabria e Puglia hanno le maggiori incidenze di abbandoni (19,4%, 17,3%, 16,6% e 15,6% rispettivamente). Il tema della dispersione scolastica è anche connesso al fenomeno dei NEET (Neither in Education nor in Employment or Training). Il confronto dell’incidenza dei NEET tra i 15 e i 29 anni in Italia (22,2%) con quella media europea (12,5%) mette in evidenza il grande divario che ci separa dai paesi più virtuosi, tra questi la Germania .
Quale via per non disperdere capitale umano?
Per migliorare l’entrata nel mondo del lavoro dei giovani sono state attivate una serie di iniziative dal Piano di Garanzia Giovani che vanno dal tirocinio extracurriculare, ai percorsi di apprendistato, al potenziamento dei percorsi Istituti Tecnici Superiori (ITS) a cui si affiancano sul territorio le scuole professionali distrettuali e le Academy aziendali.
A livello nazionale, il numero dei tirocini avviati nel quinquennio 2014-2018, ha coinvolto un totale di 1 milione 158 mila individui, il 51% dei quali sono giovani tra i 15 e i 29 anni alla loro prima esperienza nel mercato del lavoro. A un anno dal termine dell’esperienza, il tasso di inserimento nel mondo del lavoro si avvicina al 60%.
Gli ITS sono il primo esempio di formazione terziaria professionalizzante in Italia: sono attivi già da più di 10 anni e si ispirano a modelli europei già affermati come quello tedesco, per dare una risposta concreta ai bisogni dalle imprese nel trovare candidati con competenze non solo tecniche, ma anche con competenze nelle nuove tecnologie digitali e dotati di capacità di problem solving, team working e, più in generale, con soft skills di comunicazione. Sono stati finora coinvolti circa 41 mila studenti, ma i numeri sono esigui se confrontati con il bacino di diplomati di secondo grado: nel 2019 hanno concluso il diploma 3.761 studenti, contro i circa 486 mila diplomati nella scuola secondaria di secondo grado. Sono circa 200 percorsi biennali avviati ogni anno da 112 fondazioni presenti nel territorio nazionale, sviluppati in 6 aree tecnologiche (Nuove Tecnologie per il Made in Italy, Mobilità sostenibile, Tecnologie dell’informazione e comunicazione, Tecnologie innovative per il Turismo e beni culturali, Efficienza energetica, Nuove tecnologie della vita), con stage in azienda che coprono il 30% delle ore totali e tassi di occupazione che superano l’80% a 12 mesi dalla conclusione del diploma (quasi 1 su 3 a tempo determinato). Grazie all’elevata partecipazione delle imprese nella proposta formativa, sia nel partneriato (43% di imprese e associazioni di imprese nelle fondazioni), sia come ospiti di stage, sia nella docenza (70% dei docenti proviene dal mondo del lavoro), gli ITS riescono a rispondere al meglio alle esigenze formative dei vari settori economici fornendo ai loro corsisti esperienze con le tecnologie abilitanti 4.0 (55% dei corsi del 2019 ne ha utilizzato almeno una e di questi l’84% più di una) e apprendimento di tecniche trasversali di comunicazione e lavoro di gruppo. E’ in corso una riforma strutturale e organizzativa degli ITS e il Governo li ha inseriti in un capitolo di spesa dedicato (missione numero 4) nel nuovo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con l’obiettivo di raddoppiarne i diplomati entro il 2026, ma occorre un salto culturale di giovani e di famiglie che faccia capire come i percorsi professionalizzanti possono essere considerati una formazione terziaria di livello equiparabile alla formazione universitaria, come insegna l’esempio tedesco (different but equal merit), che apre percorsi di carriera altrettanto promettenti.
E’ poi fondamentale avvicinare ulteriormente il mondo del lavoro e le Università: è, infatti, ancora troppo bassa la quota di imprese che cerca personale attraverso un canale diretto con il mondo universitario. Il problema tende ad accentuarsi soprattutto tra le imprese più piccole. Inoltre, le aziende italiane incontrano difficoltà nel trattenere i migliori talenti, altamente qualificati, offrendo attività che richiedono alte competenze e restituendo in cambio retribuzioni adeguate e prospettive di crescita di carriera. La migrazione dei talenti è un fenomeno di una certa intensità in Italia, soprattutto è elevata la migrazione interna di personale altamente qualificato con titolo di studio terziario tra periferia e centro, tra provincia e provincia, e soprattutto il trasferimento di residenza all’estero che assume spesso carattere di irreversibilità. Nel 2019 si è registrata una mobilità interna di 120mila cittadini italiani con 25 anni o più in possesso di almeno il titolo di laurea. A questi vanno aggiunti oltre 28mila italiani laureati con almeno 25 anni (al netto dei rimpatri, si contano circa 14mila unità in meno). A differenza delle migrazioni interne, questi rappresentano una perdita netta per il nostro Paese, e un segnale del mercato del lavoro italiano, che induce i giovani più qualificati a investire con maggior facilità il proprio talento nei paesi esteri in cui sono maggiori le opportunità di carriera e di retribuzione.
Negli ultimi 9 anni sono aumentati i livelli di istruzione richiesti dalle imprese per le nuove assunzioni, privilegiando le posizioni più qualificate rispetto alle candidature senza una specifica formazione. Questa tendenza ha caratterizzato tutte le dimensioni aziendali: nelle micro e piccole imprese verso posizioni con qualifica professionale a sfavore dei candidati senza formazione specifica, nelle imprese medie verso qualifiche professionali e diplomi secondari e post secondari, nelle grandi verso lauree e diplomi secondari e post secondari a scapito di qualifiche professionali e di posizioni senza titolo. In media nell’industria in senso stretto le assunzioni previste nel 2019 sono state per il 34% rivolte a figure professionali, sempre al 34% a diplomati e per il 13% a laureati. Il grado di istruzione richiesto dalle imprese è influenzato non solo dalla complessità dell’organizzazione aziendale ma anche dall’intensità tecnologica richiesta dallo specifico settore industriale di appartenenza: nell’industria chimica e farmaceutica la ricerca di personale si rivolge per il 75% a laureati e diplomati, la quota rimane rilevante anche in quella elettrotecnica ed elettronica (69%), mentre scende al 36% per l’industria del mobile.
Nonostante la crescente quota di posizioni più qualificate inserite in azienda, resta un ampio divario rispetto ai principali paesi europei in termini di occupati con competenze elevate, la cui incidenza nel 2017 in Italia era pari al 20% contro il 29% della Germania e il 37% della Francia (fonte: progetto europeo EUKLEMS). Se poi si considerano anche le quote di reddito per i lavori ad alta competenza, il divario si amplia ulteriormente, con una percentuale per l’Italia del 22% contro il 35,8% della Germania e il 46,7% della Francia.
L’Italia poi si posiziona all’ultimo posto tra gli stati europei esaminati per evoluzione delle competenze di alto livello: tra il 2008 e il 2007 ha guadagnato solo 2 punti percentuali sul peso totale dell’occupazione e si è addirittura lievemente ridotta la quota dei redditi (-0,3%). La Germania ha registrato un aumento degli occupati con livelli alti di competenze, ma una riduzione della quota di reddito, che peraltro è molto alta rispetto a quella italiana. La difficoltà in Italia a far crescere il lavoro altamente qualificato è in parte bilanciata dall’aumento di occupazione e reddito nelle professioni con livello medio di competenza, dove l’Italia si colloca al primo posto per crescita tra il 2008 e il 2017 della quota di reddito (+7,9%) e di occupazione (+2,4%) e si trova ai primi posti per incidenza di occupazione (47,4%).
Queste evidenze sembrano confermare l’esistenza in Italia di un circolo vizioso nel mercato del lavoro: a fronte di una minore propensione delle imprese a impiegare e soprattutto a valorizzare con retribuzioni adeguate le figure professionali a maggiori competenze non vi è l’incentivo da parte dei giovani a investire in percorsi educativi più lunghi e onerosi. Al tempo stesso la mancanza di tali figure sul mercato del lavoro non incentiva le imprese a modificare le proprie modalità operative.
I prossimi anni saranno decisivi per l’economia italiana. Per aumentare strutturalmente il nostro potenziale di crescita è necessario ridare slancio alla domanda interna, sbloccando i risparmi accumulati da famiglie e imprese. Il PNRR dovrà attuare un intenso processo di riforme per poter rilanciare investimenti in digitale, transizione green, infrastrutture, formazione e ricerca, con un’attenzione particolare ai giovani, le donne e al Mezzogiorno. Gli investimenti delle imprese andranno accompagnati dallo sviluppo di un solido ed efficiente sistema di formazione e innovazione composto da imprese, scuola (Università e ITS in primis) e istituti di ricerca (tra i quali anche i Competence Centre e gli Innovation hub), con l’obiettivo di favorire la formazione, lo scambio di competenze e il trasferimento tecnologico. Solo così si potrà innescare un circolo virtuoso tra domanda di capitale umano qualificato (da parte delle imprese) e offerta di alte competenze (da parte dei lavoratori), con ricadute positive sulla competitività del nostro paese.
[1] Sistema Informativo Excelsior (2020); Previsione dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a Medio termine (2020-2024).
[2] Unioncamere-ANPAL, Sistema Informativo Excelsior, Bollettino Mensile, ottobre 2021.
[3] Disoccupati, Capitale Umano.Stat di ISTAT.
[4] Anagrafe MIUR, data base on line.
[5] Unioncamere-ANPAL, Sistema Informativo Excelsior, Bollettino Annuale 2018.
[6] Audizione Istat luglio 2021-Dispersione dopo la scuola dell’obbligo (ELET).
Video di apertura del digital tour di Imprese Vincenti 2021
Data ultimo aggiornamento 4 novembre 2021 alle ore 17:44:00