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Cultura

Perché raccontiamo storie: la forza della narrazione

Un approfondimento in collaborazione con Linkiesta.

Il linguaggio è nato circa venti milioni di anni prima della scrittura. Mentre aspettavano di imparare come incidere qualche segno grafico su una lastra di roccia, gli esseri umani si sono intrattenuti raccontando storie. Venti milioni di anni dopo, le storie sono diventate sempre più sofisticate e hanno un’eco diversa da quella della grotta. Che siano libri, film, serie tv o audio su Whatsapp continuiamo sempre a chiederci chi siamo, da dove veniamo, che cosa rappresentiamo gli uni per gli altri. La nostra innata spinta a narrare rimane una caratteristica essenziale degli esseri umani.
Grazie alle storie impariamo a conoscere il bene e il male, le tradizioni, la cultura. Ma anche la nascita, l’invecchiamento, la malattia e la morte. Parola dopo parola, apprendiamo cosa è successo prima di noi e a nostra volta lo tramandiamo alle generazioni future. Secondo la scrittrice cinese Fang Fang – una tra i dieci protagonisti della letteratura che intervengono nel magazine di Linkiesta in collaborazione con il New York Times – lo facciamo già da bambini.
Quando iniziamo a imitare i suoni, stiamo ascoltando attentamente delle storie. Vengono dalla nostra famiglia, da chi ci sta intorno, dai campi, dalle strade e dai libri. Queste esperienze universali si declinano in modo diverso in base alla provenienza, l’etnia e il genere a cui si appartiene. E il modo in cui affrontiamo le storie evolve nel corso delle diverse epoche

 

Perché raccontiamo storie

Perché raccontiamo storie

10:24

Wendell Pierce sul perché raccontiamo storie

Ma perché raccontiamo storie? Per l’attore americano Wendell Pierce è il desiderio umano di lasciare una traccia durevole nel mondo prima di morire. Raccontare la storia dei nostri percorsi dà scopo, significato e longevità alla nostra vita e fornisce una comprensione della condizione umana che può essere condivisa da una generazione all’altra e che ha il potere di cambiare il modo in cui si guardano le cose. Senza il racconto delle storie, non avremmo gli strati della Storia che hanno un impatto sul nostro presente e un influsso sul nostro futuro.

Amanda Gorman: trovare se stessi

C'è un filo rosso che lega Omero alla giovane poetessa afroamericana Amanda Gorman, intervenuta nel giorno dell’inaugurazione del mandato presidenziale di Joe Biden. Tutti possono raccontare storie: ma per secoli gli esseri umani hanno concesso particolare attenzione a figure specifiche nella comunità: l’aedo per gli antichi greci, il trovatore nel Basso Medioevo, il poeta di corte nel Rinascimento e lo scrittore nell’era contemporanea. Proprio secondo Gorman, quando raccontiamo storie ricorriamo a un antico potere che rende noi stessi – e il mondo – più grandi di quello che siamo: persone che cercano delle spiegazioni e tentano di trovare loro stesse. Che sia Achille o il presidente degli Stati Uniti.

Il punto di vista di Valentina Parasecolo

Inoltriamo la domanda di questo episodio – perché continuiamo a raccontare storie – a Valentina Parasecolo, giornalista con un libro in uscita per Marsilio.

«Raccontiamo storie perché il nostro cervello è fatto per cercare di comprendere – risponde l’autrice –. È fatto perché sia possibile abitare la realtà e questo non si fa solo attraverso il racconto di quello che ci circonda, attraverso competenze cognitive complesse e quindi attraverso la simulazione di scenari possibili. Questi scenari quindi sono anche inverosimili. In altre parole, per comprendere abbiamo bisogno di inventare storie. Non possiamo smettere di comprendere una realtà che è in continua trasformazione, perché noi stessi la formiamo e la performiamo».

Ma cosa rende un essere umano un bravo scrittore? Per la scrittrice Diana Gabaldon è la stessa cosa che rende uno scienziato un bravo scienziato: l’abilità nell’individuare degli schemi dove sembra esserci soltanto caos. «C'è qualcosa che distingue a mio avviso i grandi, le grandi narratrici, i grandi narratori – riflette Parasecolo – che è la capacità di essere in contatto, di entrare in contatto con delle verità umane condivise. Quando apro una pagina e trovo una parola esatta, precisa, degli accostamenti giusti, un conflitto tra personaggi particolarmente riuscito; beh quando lì io trovo rivelata una parte del mio vissuto una sensazione un'emozione a cui io non avevo dato nome, e che mi appartiene ma che non avevo messo a fuoco, lì forse valuto la capacità di qualcuno di essere proprio un grande, un grandissimo».

Michelle Thaller: la storia rende sensati i fatti

Per riassumere le alte posizioni – che potete approfondire nel magazine – secondo l’astronoma e divulgatrice Michelle Thaller la storia ai suoi minimi termini è la progressione da un punto a un altro che rende sensati i fatti e gli eventi che essa contiene. Ecco perché le storie ci consentono di organizzare la conoscenza e di trasferirla agli altri. Con qualsiasi linguaggio.

Si può comunicare l’identità di una banca con uno spot di trenta secondi o il senso di unità nazionale con un inno prima di una partita di calcio. Ma esistono forme ancora più sofisticate. Per esempio il maestro di scacchi nippoamericano Hikaru Nakamura racconta storie sugli scacchi, sui tornei, sugli eventi storici e su alcune giocate per intrattenere il suo pubblico su Twitch.

Insomma, non c’è un solo modo – né un solo mezzo – per raccontare una storia. Anche se il sospetto è che comunicare ci serva soprattutto a entrare in contatto con altre storie.

Insomma, non c’è un solo modo – né un solo mezzo – per raccontare una storia. Anche se il sospetto è che comunicare ci serva soprattutto a entrare in contatto con altre storie.

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