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Economia

Breve storia di come il mondo è diventato meno diseguale con Thomas Piketty

ufficio, tramonto, uomo alla finestra, prospettiva.
ufficio, tramonto, uomo alla finestra, prospettiva.

Thomas Piketty non ha una fama da ottimista. Per capirci, è il genere di amico a cui prima di un aperitivo direste «Però stavolta non parliamo di politica». Eppure, il suo ultimo libro ha una visione positiva del futuro. Seguiamo l’economista francese nella breve storia di come il mondo è diventato meno diseguale.

In un colloquio con Ezra Klein del New York Times, l’autore del “Capitale nel XXI secolo” – l’opera che lo ha reso uno degli Avangers della sinistra mondiale – racconta la sua “Breve storia dell’uguaglianza”, pubblicato in italiano dalla Nave di Teseo.

Breve storia di come il mondo è diventato meno diseguale

Breve storia di come il mondo è diventato meno diseguale

11:20

Breve storia dell’uguaglianza di Thomas Piketty

Piketty sostiene che abbiamo assistito a una marcia verso l’uguaglianza che molti di noi ancora sottostimano. Ha esaminato circa duecento anni, dalla fine del diciottesimo secolo a oggi. «Talvolta pensiamo che quello attuale sia un mondo pieno di big data e molto trasparente – riflette l’economista – e in effetti alcune aziende private accumulano molti big data su di noi, che spesso vorremmo non accumulassero. Ma, per quanto concerne invece le statistiche e le informazioni pubbliche su chi possiede che cosa e su come ciò cambi con il passare del tempo, viviamo in realtà in un’epoca di grande opacità».

Piketty fa una distinzione importante tra reddito e ricchezza, sostenendo che la disuguaglianza patrimoniale è l’indice più importante di cui tenere conto per mostrare l’evoluzione dell’uguaglianza. Ma quanto conta oggi la ricchezza nel famigerato «ascensore sociale»?

«Nonostante i passi avanti nell’uguaglianza di cui parla Piketty, la ricchezza di partenza conta ancora moltissimo per determinare il percorso che farà ciascuno di noi. Ma ci sono altre variabili che possono influenzarlo»

Lidia Baratta, responsabile economica di Linkiesta

Lo studio sulla mobilità intergenerazionale di Gianluca Violante, Paolo Acciari e Alberto Polo

Uno studio condotto da tre economisti italiani – Gianluca Violante, Paolo Acciari e Alberto Polo – ha messo a confronto i dati di circa 2 milioni di dichiarazioni dei redditi di genitori e figli arrivati all’età di 35 anni, osservandone le variazioni nel tempo. Quello che viene fuori è che la mobilità intergenerazionale verso l’alto esiste, anche se per alcuni esiste più di altri.

«Mi spiego meglio – continua Baratta –. I dati dimostrano che chi nasce ricco è avvantaggiato, con circa il 33% di possibilità di mantenere lo status sociale di famiglia. Mentre un figlio nato da genitori nella fascia reddituale più bassa ha solo l’11% di probabilità di arrivare da adulto nella fascia più alta. Ma questa percentuale varia, e non di poco, anzitutto in base alla provincia e regione di nascita».

I tassi di mobilità verso l’alto sono molto più elevati nel Nord Italia, dove incidono la presenza di scuole di maggiore qualità, famiglie più stabili e condizioni del mercato del lavoro più favorevoli. Mentre la scarsa mobilità del Sud viene alterata nel momento in cui i figli si trasferiscono dal Sud al Nord.

«Se si emigra, insomma, si hanno tassi di mobilità verso l’alto molto più alti», conclude Baratta. «A essere determinante, poi, è anche il genere. I dati dello studio mostrano che la mobilità verso l’alto è maggiore per i figli maschi. Ma il fattore decisivo resta la qualità del sistema scolastico. La scuola, osservando le correlazioni statistiche, è quella che più delle altre determina il futuro dei giovani in termini di posizioni professionali e guadagni futuri».

In particolare, i tre economisti italiani spiegano che sono decisive le scuole materne e le elementari, ancora più delle scuole superiori. I primi anni di formazione del bambino nella fascia 0-7 hanno effetti permanenti su quanto guadagnerà in futuro.

Lavoro e povertà: il fenomeno del working poor

Piketty spiega anche che «quando non si ha alcuna ricchezza o, peggio ancora, quando si ha una ricchezza negativa, si è costretti ad accettare qualsiasi condizione lavorativa e qualsiasi salario». Mentre sopra un certo patrimonio «se vi viene proposto un lavoro che non vi piace, non dovete accettarlo senza neppure pensarci».

L’economista è convinto che un numero maggiore di persone abbia acquisito «via via sempre più controllo, più potere contrattuale, più opportunità nella gestione della propria vita». Rileva Baratta: «Non c’è dubbio che negli ultimi anni, soprattutto in alcune aree geografiche e in alcuni settori del mercato del lavoro, sono cresciute retribuzioni sotto la soglia di povertà, condizioni di lavoro insicure, assenza di tutele sindacali e orari di lavoro ben oltre i limiti legali. Queste condizioni sono più diffuse appunto, in aree del mondo e tra categorie di lavoratori, in cui il lavoro appare più come un “dono” o una “concessione” da accettare per sopravvivere».

È un caso estremo, ma lo stesso vale per molti giovani che devono pagare l’affitto e sono disposti ad accettare qualsiasi salario. «Da qui emerge il fenomeno dei working poor, per cui avere un lavoro oggi non significa più non essere poveri».

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